(articolo pubblicato su Transform!Italia il 3 settembre 2025)

Ho ascoltato con attenzione l’intervento tenuto dalla Presidentessa del Consiglio Meloni al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, il 27 agosto scorso. Un intervento pieno di passione, di determinazione e volontà di fare cose per la nazione Italia, nel quale la relatrice ha definito come l’unico vero elemento di discontinuità con il passato la nuova consapevolezza della nazione che rappresentiamo, da quando la destra governa il Paese. In linea con il titolo che venne scelto per Atreju, la manifestazione della Gioventù Nazionale di Fratelli d’Italia, nell’edizione del 2023: “Bentornato orgoglio italiano”. Un intervento certo, quello di Rimini, che ha offerto riferimenti a personaggi della Chiesa e del suo popolo, ma che si è sicuramente centrato attorno al dirompente concetto di nazione, un termine che personalmente, ma non sono l’unico, uso molto raramente, preferendo parlare di Stato o Paese, o semplicemente di Italia. Per il dizionario Treccani, la nazione indica propriamente un insieme di persone che hanno in comune l’origine, la lingua, la storia, la cultura e le tradizioni, e che hanno coscienza della loro unità, ed è questo certamente l’accento con cui la Presidentessa utilizza il termine, identificazione con lo Stato nazionale o la comunità del Paese a parte. 

Nazione, una parola che ha attraversato l’intervento dall’inizio alla fine, talvolta utilizzata con enfasi, talvolta come sinonimo di termini forse più comuni. Spiegando che il suo governo non occupa il campo delle ideologie e delle utopie, ma il campo del reale, ha indirettamente associato il reale con la nazione, e l’irreale, l’inutile, le paludi da risanare con quanto mette in discussione la sua centralità. Perché “noi amiamo le persone”, ha dichiarato con voce vibrante citando il filosofo cattolico Jean Guitton, ed è per loro che vale la pena vivere e morire, non appunto per cose che non appartengono al campo del reale. Devo dedurre che la nazione è il campo del reale, mentre ideologie ed utopie di cui la nazione non è un riferimento centrale sono il campo del non-reale?
Se la mia interpretazione non è errata, tutto si giustifica del pensiero portato dal governo del Paese, in cui l’amore per le persone si interseca con la centralità della nazione.

Certo, il mondo è fatto di più nazioni, ed è per questo che l’Unione Europea dovrebbe continuare ad essere una “comunità di nazioni”, dove le volontà nazionali prevalgono su ideologie e utopie, in particolare quando vengono portate da un ceto di burocrati senza legittimità popolare, come ascolterete in numerosi interventi della classe politica contemporanea. Come ha ricordato la Presidentessa, “uniti nella diversità”: questo, nelle sue parole, dovrebbe ridiventare l’Unione europea, anche se personalmente ritengo che sia già il caso, visto che su molti dossier le “diversità” siano tali da paralizzare le riforme delle politiche comunitarie…
Certo, il mondo è fatto di nazioni, ed è per questo che “essere conservatori” non potrebbe che voler dire rinnovare le proprie tradizioni e la propria storia, senza ripetersi, ma anche senza sostituirne o invalidarne i riferimenti. Riferimenti che – quando condivisi – costituiscono il legante di una civiltà, il suo sistema di valori. Noi apparteniamo alla civiltà occidentale, all’Occidente – ha spiegato la Meloni a Rimini –  perché il nostro sistema di valori si è costruito attraverso la filosofia greca, il diritto romano e l’umanismo cristiano. “Dove gli uomini nascono uguali e liberi, dove la vita è sacra e la cura per i più fragili è un valore assoluto”.
E come nazione occidentale, forte del suo incorruttibile sistema di valori, così siamo in grado di aiutare l’Africa, “creando un modello di cooperazione che rifugge tanto l’approccio paternalistico quanto quello predatorio”. È questo lo spirito, assicurano le sue parole, con cui è stato concepito il Piano Mattei per l’Africa, espressione di un nuovo patto tra Nazioni libere, “che scelgono di cooperare perché credono nei valori della centralità della persona, della dignità del lavoro e della libertà”. Se così sarà, aderisco pienamente e attendo fiducioso i risultati di questo cambio di rotta, dove la libertà sia rispettata e esercitata anche all’interno delle nazioni africane, altrimenti resterebbe un patto tra alcune nazioni libere ed altre che non lo sono, perpetuando uno status quo costituito di Paesi “non sicuri”, dove i diritti fondamentali vengono regolarmente calpestati. Per ora, siamo al punto di partenza. Come osserva l’Università Cattolica di Milano, dei 5,5 mld stanziati sono stati allocati, sulla base delle informazioni disponibili, solo 600 mln; se anche venissero impiegati tutti i 5,5 mld messi a disposizione, questi non rappresenterebbero che lo 0,5% circa del Pil aggregato dei primi nove Paesi aderenti; inoltre, difficilmente la crescita economica che ne potrebbe derivare riuscirebbe a chiudere il divario di reddito pro capite tra il nostro Paese e Paesi africani coinvolti nel Piano, al punto da rendere meno attraente l’emigrazione verso l’Italia. 

A proposito di emigrazione, ha ricordato la Presidentessa, il card. Robert Sarah – che fu prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti fino al 2021 – ha parlato di diritto a non migrare, della necessità di combattere le cause profonde che portano molte persone a cercare fortuna altrove,  sottolineando l’importanza di creare condizioni di vita dignitose nei Paesi d’origine per ridurre la necessità di migrazioni forzate. È un pensiero che condivido, perché la fuga è sovente l’atto riparatore di una sconfitta che sigilla l’impossibilità di realizzare le proprie aspirazioni nella propria terra e tra la propria gente; in altre parole, di esercitare il diritto all’autodeterminazione. Questo, però, non può sostituire il dovere dell’accoglienza del più debole, del perseguitato o di chi cerca di sottrarsi a una vita di stenti prendendo la via del deserto o del mare, che si affidi alla tratta dei migranti non avendo alternative, o che trovi vie diverse per mettersi in viaggio. Né può giustificare la criminalizzazione delle azioni di soccorso nel deserto o in mare in nome di leggi dello Stato che inaspriscono le misure di contenimento o controllo alle frontiere. Non si può fare questo in nome del bene della nazione, non vi può essere narrativa politica e culturale che relativizzi la solidarietà e la pratica dell’umanità. 

“Le persone migranti che bussano alle nostre porte portano in sé questo grido: chiedono di essere riconosciute come fratelli e sorelle, di camminare insieme. Il soccorso e l’accoglienza non sono solo gesti umanitari essenziali, sono gesti che danno carne alla fraternità, che edificano la civiltà” aveva scritto Papa Francesco nell’estate del 2024.

Ecco allora che si pone una questione profonda sul concetto di “civiltà”, e questa questione dovrebbe interpellare tutti, non solo i credenti. Lo dico perché, se la cartina di tornasole con cui si interpretano i confini materiali e immateriali della civiltà è la nazione, le azioni che si conducono in nome di una battaglia di civiltà rischiano di escludere, distinguere e dunque discriminare. Nell’intervento della Presidentessa del Consiglio che definiva i contorni della civiltà occidentale, non una parola è stata spesa sul ruolo rappresentato dal Mediterraneo come culla di scambi, incroci e commerci. O dell’influenza delle scienze arabe sul progresso scientifico e tecnico del continente europeo: dall’astronomia all’agricoltura, dalla medicina all’architettura. O di quella delle arti, del linguaggio e della letteratura, di cui beneficiò anche Dante Alighieri. 

Andate a visitare la straordinaria basilica di Pisa, le cui colonne granitiche in stile corinzio fra la navata e l’abside provengono dalla moschea di Palermo, e nei cui tesori si conserva un incredibile grifone in bronzo di manifattura islamica. Tra bottini di guerra e scambi commerciali, la storia di Pisa ha insegnato che il concetto di frontiera, e dunque di identità, è un concetto artificioso, e che se siamo quello che siamo è perché la penisola italica è stata terra di conquista e di approdo, e porto di transito e scambio a cavallo tra Ovest ed Est. Il più grande studio di genetica della popolazione italiana, pubblicato su Science Advances nel 2019, ne analizzava in maniera sistematica la distribuzione della variazione genetica, rivelandone l’incredibile eterogeneità. Confrontando il grado di variazione tra i cluster genetici in Italia con quelli di diversi paesi europei e dell’intera Europa, si scopre che la variabilità tra i cluster in Italia è significativamente più elevata rispetto a qualsiasi altro paese esaminato!

Se vi è un’immagine di cui vado orgoglioso è quella di una nazione cresciuta attraverso gli scambi e gli incroci, forse per eccellenza una rappresentazione di un’identità plurale, aperta, non-escludente, curiosa dell’altro. È di questa civiltà di cui mi sento parte, e per cui mi sento orgogliosamente figlio della cultura italiana.

Un ultimo appunto su Gaza. La Capa del governo ha spiegato che siamo la nazione europea che si è adoperata di più sul fronte umanitario, il primo paese non musulmano al mondo per evacuazioni sanitarie da Gaza (l’Organizzazione mondiale della salute classifica l’UE al quinto posto per evacuazioni per motivi sanitari). Bene, una buona notizia! Tutto questo, tuttavia, non servirà a fermare la guerra, anzi purtroppo sarà come tappare i buchi scavati dalle pallottole sui muri senza intervenire perché si smetta di sparare. Per fermare la guerra, bisogna fermare le commesse di armi, applicare misure di isolamento e congelamento dei rapporti commerciali con Israele e sospendere l’accordo di associazione tra UE e Israele. Tutto questo non sta sul tavolo delle misure considerate dal governo italiano, da quanto mi risulta; solo rimproveri e richiami, a tutto vantaggio del regime di impunità di cui beneficia Israele.

Ancora una volta, è una lettura effettuata attraverso il concetto di nazione che si applica, che porta a profonde discriminazioni, e che mi fa pensare che molto si spieghi con il fatto che la nazione ebraica sia identificata come facente parte del campo occidentale, e quella arabo-palestinese no.
Le vite umane si salvano anche utilizzando il pugno di ferro con un alleato, se necessario. Le vite umane si salvano anche accogliendo i figli di terre lontane, anche se ha un costo sovente impopolare. Il mio sogno è quello di appartenere ad un Paese che osi fare questo, perché è profondamente “mediterraneo”: plurale, aperto, non-escludente, curioso dell’altro.

Aspetterò l’intervento che la Presidentessa farà al prossimo Meeting di Rimini, con la speranza che racconterà che può anche esistere una narrativa diversa da quella in voga in questi giorni.

Gianluca Solera

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